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Non dimentichiamoci dei malati di SLA aiutamoli a comunicare con la tecnologia
La SLA è una malattia subdola e sleale che arriva impetuosa nella vita di una persona, rompe gli schemi, stravolge ogni aspetto della vita quotidiana”.

Con questo articolo desidero tornare sul tema della disabilità raccontandovi la storia e i pensieri di Monica[1], fisioterapista da 10 anni, che ha deciso di vivere la sua vita, con coraggio e determinazione, al servizio dei malati affetti da patologie neurodegenerative come la SLA, svolgendo il suo lavoro con professionalità e una profonda sensibilità.

Lo scambio di parole con Monica è stato molto emozionante e costruttivo da trasmettermi quanto sia importante sensibilizzare la società, le istituzioni e il settore medico-sanitario, affinché comprendano e facciano comprendere che questa malattia non deve essere vista con indifferenza o con paura, ma deve essere capita e affrontata.

Non esiste una terapia farmacologica efficace che possa guarire il paziente da questa gravosa patologia ma possono esserci indispensabili “terapie emozionali e tecnologiche” capaci di accompagnarlo, nel modo migliore possibile, nell’inevitabile decorso della malattia.

Non permettiamo che i malati affetti da malattie neurodegenerative come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), siano abbandonati, chiusi nel loro profondo silenzio fisico ed emotivo dove precipitano nel momento in cui la malattia si aggrava irrimediabilmente!

Non permettiamo che una persona malata, per la sua condizione, diventi un “peso sociale” nella comunità. Infatti, una comunità che sia indifferente all’altro, rischia di per sé di spingere il malato e i suoi familiari nella solitudine e nella disperazione.

Proprio perché la disabilità, in qualsiasi forma sia, non è isolamento e emarginazione ma deve essere inclusione, accoglienza e condivisione. Affinché la famiglia e il proprio caro, così gravemente malato, non siano abbandonati a loro stessi ma vengano messi nella condizione di poter vivere un’esistenza il più normale possibile.

Come accompagnare nella malattia il proprio caro affetto da SLA?

La SLA è una malattia degenerativa del sistema nervoso che progressivamente preclude al paziente la possibilità di muoversi, nutrirsi autonomamente e di comunicare con i propri familiari e quindi con il mondo esterno.

Purtroppo, non si conoscono ancora le cause che generano questa patologia ma solo gli irrimediabili effetti, devastanti sia per il paziente che per la famiglia.

❖    Impatto della malattia

Questa malattia ha un gravoso impatto:

  • sia sulla persona colpita, in quanto gradualmente non sarà più in grado di controllare i movimenti delle sue mani, delle sue braccia, dei suoi muscoli… fino a compromettere anche la respirazione…

Purtroppo, nelle forme più gravi della malattia, il paziente manterrà vive solo le proprie capacità cognitive: potrà pensare ma non potrà più parlare!

  • sia sui suoi familiari, che si troveranno a dover essere le braccia e le gambe del proprio caro, assistendolo in tutto e per tutto con un notevole carico emotivo, spesso insostenibile,

che modificherà profondamente la vita di entrambi.

Di fatto, in base alla sua esperienza di fisioterapista, Monica, conferma la necessità di spiegare alla famiglia e al paziente stesso quello che accadrà.

Come purtroppo entrambi dovranno adattarsi ad una nuova dimensione della propria esistenza, soprattutto qualora si decida di prendersi cura del proprio caro all’interno delle mura domestiche.

❖    Necessità di garantire un adeguato percorso assistenziale

Lo sforzo di mantenere una continuità assistenziale equipe medica/paziente anche al di fuori della struttura ospedaliera, rischia di venir meno nel momento in cui ci si affidi alla “assistenza domiciliare integrata”.

Ci si chiede pertanto se ad oggi paziente e famiglia siano seguiti in tutto il processo di gestione della malattia, secondo anche un approccio multidisciplinare (dal neurologo, al pneumologo, allo psicologo, al fisioterapista).

Oppure troppo spesso se ne fa carico sempre una persona sola?

Per la specifica patologia della SLA in assistenza domiciliare integrata, si garantisce un adeguato supporto dell’equipe medica – quali medici, infermieri, fisioterapisti – ma di fatto non sempre si riesce ad assicurare la presenza, nel domicilio del paziente, di più figure sanitarie con le stesse modalità della struttura ospedaliera.

Questo comporta altresì la difficile condivisione giornaliera del percorso terapeutico del paziente, infatti – come ci spiega Monica – “nella maggior parte dei casi, le cure mediche, quelle infermieristiche e riabilitative non possono, per motivi di gestione, svolgersi nel medesimo momento, per cui spesso l’operatore si trova ad erogare il proprio servizio da solo”.

In tale contesto diventa comunque indispensabile garantire al paziente e alla famiglia un efficiente e adeguato percorso assistenziale.

Occorrerà assicurare, da una parte, un idoneo supporto psicologico, che purtroppo, come ci segnala Monica, a livello territoriale non sempre viene garantito, aggravando così sul singolo operatore il carico della difficile situazione.

Lui stesso dovrà imparare con le sue forze ad “avviare e mantenere una relazione terapeutica” con il malato e i suoi familiari, senza rischiare di perdersi emotivamente nel loro dolore.

Dall’altra parte, sarà necessario proporre alla famiglia e al paziente l’opportunità di un aiuto tecnologico come parte integrante del piano terapeutico. Oltre a istruire i familiari, fin dall’inizio della malattia, ad affrontare situazioni di emergenza e ad imparare ad utilizzare gli ausili tecnologici.

Tecnologia e malattie neurodegenerative (SLA): tecnologie assistive

L’aspetto tecnologico quindi assume un ruolo determinante sia per il paziente, perché possa continuare ad interagire con i familiari e comunicare con loro, migliorandone così la propria autonomia (funzionale e intellettuale) e qualità della vita.

❖    Necessità di un corretto progetto riabilitativo per i malati di SLA

Sia per l’operatore, “che può progettare un intervento riabilitativo più completo e personalizzato e facilitarne l’attuazione”. Infatti, come ci racconta Monica, “gli ausili tecnologici hanno:

  • una funzione riabilitante, consentendo al paziente di lavorare su movimenti, posture etc. e
  • una funzione abilitante, permettendogli di svolgere attività che altrimenti gli sarebbero precluse”.

La figura del fisioterapista è determinante sin dall’inizio della malattia:

  • non solo per mettere in pratica il “progetto riabilitativo mirato e personalizzato” per ogni fase della malattia;
  • ma anche perché si assume il compito di preparare il familiare all’assistenza quotidiana del proprio caro, nella riabilitazione sia fisica che tecnologica.

Difatti, prosegue Monica, “nella mia esperienza di fisioterapista, mi sono trovata spesso a lavorare su casi di pazienti gravemente malati e ad interagire con quest’ultimi attraverso, ad esempio, il puntatore oculare.

Ossia un pc con una telecamera che permette ad una persona che fissa lo sguardo sullo schermo, di poter scegliere un tasto, una parola, un’icona attraverso il movimento degli occhi”.

Tramite un puntatore oculareo uncomunicatore oculare, “il paziente può connettersi con il mondo esterno collegandosi ad internet, scrivere un messaggio su WhatsApp, inviare una mail, guardare un film o ascoltare una canzone su YouTube o, addirittura, accendere la TV o le luci di casa”.

Questi ausili tecnologici infatti permettono al paziente, che ormai non ha più il controllo del suo corpo, di poter comunicare solamente attraverso il battito degli occhi o il movimento della pupilla.

Con questi strumenti potrà quindi scrivere tramite una tastiera virtuale e le frasi, di seguito, verranno riprodotte con il suono della voce, dando luogo ad una vera e propria conversazione.

Nasce quindi l’esigenza – suggerisce Monica – di garantire un “intervento riabilitativo a 360 gradi, modellandolo secondo le quotidiane esigenze del paziente che, in tal modo, può comunicare in tempo reale se ha dolore, se è troppo stanco per praticare un determinato esercizio, se vuole proseguire o meno la terapia e, non per ultimo, rispondere alle domande sul decorso della malattia e sulle relative aspettative”.

❖    Proposta dell’ausilio tecnologico per i malati di SLA: difficoltà di accettazione

Nel percorso riabilitativo l’adozione di un ausilio tecnologico per la famiglia ma soprattutto per il paziente, non è di facile comprensione in quanto significa, per entrambi, dover accettare ed interiorizzare la disabilità.

Il paziente infatti deve essere coinvolto in prima persona nella scelta dell’ausilio e nel suo utilizzo: deve comprendere che dovrà relazionarsi con esso, conviverci… esso dovrà essere parte di lui.

In questo modo il malato di SLA potrà assumere un ruolo attivo nelle decisioni inerenti alla sua cura e assistenza.

Il ruolo del fisioterapista: punto di riferimento per paziente e famiglia

Il fisioterapista diventa un punto di riferimento per paziente e familiari, ma certamente professionalità e emotività non devono confondersi, soprattutto se l’attività terapeutica viene svolta in assistenza domiciliare.

Chi lavora con gli ammalati impara con il tempo a creare una sana e doverosa distanza professionale necessaria al corretto andamento delle terapie, – racconta Monica – in ospedale o in uno studio medico questo può avvenire facilmente.

Ma entrare nella casa di un malato per garantirgli cura e assistenza non è solo valutare un quadro clinico, è entrare nella sua malattia e nella sua storia, nella sua vita precedente, a quando era sano e nella sua famiglia. E lo si fa con i propri “panni”. Si entra da persona comune, oserei dire da persona più vulnerabile”.

❖    Professionalità e ascolto

Certamente per il professionista non è cosa facile riuscire a gestire paziente e familiari, senza essere troppo invadente né troppo distaccato.

In particolare in una situazione in cui, soprattutto per la famiglia, nasce l’esigenza di chiedere aiuto, di sfogarsi, di capire come agire e sopravvivere alla gravosa condizione.

Bisogna trovare ogni volta il giusto equilibrio tra la vicinanza da dimostrare a queste persone e una sana ed indispensabile distanza di sicurezza per noi stessi”.

Così come – prosegue Monica – “il primo importante momento per comunicare con pazienti e familiari è l’ascolto, che sia un ascolto efficace.

Bisogna lasciare lo spazio necessario alla persona di poter esprimere le proprie perplessità, paure ed incertezze riguardo la malattia”.

Pertanto “attraverso una comunicazione sia verbale che non verbale, –  spiega Monica- si ha l’obiettivo di entrare in empatia col paziente lasciando, però, poco spazio alla confidenza, cercando di mantenere quanto più possibile un comportamento professionale e deontologicamente corretto”.

❖    Come comunicare con il paziente affetto da SLA?       

È proprio la comunicazione verbale e soprattutto non verbale, il mezzo con cui entrare in contatto con il paziente. Proprio perché lui “sente l’esigenza di liberare le proprie emozioni, parlare, domandare, affiancare agli esercizi per il corpo quelli per la mente”.

Infatti, Monica afferma che “oltre all’ausilio dei puntatori, si lascia molto spazio alla comunicazione non verbale: diventano di riferimento per un “si” o un “no” i movimenti delle palpebre, la mimica facciale, come ad esempio un sorriso o corrugare la fronte”.

Ci si rende conto, così, di quanto sia vero che la comunicazione di noi tutti sia condizionata in gran parte dai gesti, dagli sguardi e dal grande potere che ha il nostro corpo di parlare”.

❖    Lavoro e vita quotidiana

Come affrontare la vita di tutti i giorni vivendo giorno dopo giorno la sofferenza e il dolore degli altri?

Quanto questo influisce sulla vita del professionista al quale non è garantito un supporto psicologico nell’esercizio dell’attività assistenziale?

Monica racconta che la sua è stata una scelta consapevole, “cosciente del fatto che la Fisioterapia, in questo caso, non guarisce i malati ma certamente ne migliora la qualità della vita”, dove è difficile accettare che la persona che hai in cura non guarirà ma certamente tu hai potuto per lui fare la differenza.

Da questa esperienza – continua Monica – che quotidianamente mi porta a toccare il dolore umano, ho capito di quanto le persone abbiano bisogno delle persone.

Di quanto questo abbia cambiato il mio approccio alla vita, perché i miei occhi vedono ogni giorno qualcosa di davvero importante, per nulla scontato.

Lo strazio e le lacrime delle madri mentre accarezzano i loro figli disabili, allettati, incoscienti; il dolore delle mogli o dei mariti che, nonostante giovani, dedicano la loro vita ad accudire il proprio coniuge, rinunciando a tutto il resto. 

La rassegnazione dei figli, bambini e adolescenti, che sopportano l’evolversi inevitabile della malattia di un genitore, continuando a giocare, studiare, vivere come possono, nella stessa casa”.

Confido che con l’aiuto di Monica, siamo riuscite a mettere le basi per profondi spunti di riflessione sulla necessità di accettare, includere e sostenere con tutte le nostre forze la disabilità all’interno della nostra comunità.

[1] Monica De Giovanni – Svolge da circa 10 anni l’attività di Fisioterapista. Si è laureata presso la Sapienza Università di Roma; sin dagli anni dedicati alla laurea ha scoperto la grande passione per il campo della Neurologia tanto da orientare gran parte delle esperienze formative successive in quella direzione.
Attualmente si occupa di ADI (Assistenza domiciliare integrata), in particolare di Riabilitazione in Area Critica, un ambito caratterizzato da un’alta complessità gestionale per la gravità delle patologie che vi fanno parte.
La sua giornata tipo è così scandita da due fattori: tempo e distanze. Raggiunge una media di 6/8 pazienti al giorno, ciascuno nella propria abitazione. Dedica ad ogni persona una media di 45/60 minuti e, in massimo 15 minuti, cerca di raggiungere l’utente successivo. Inizio la mattina intorno alle ore 9.00 e termino il pomeriggio intorno alle 17.00.